L’uso legittimo delle armi dal Codice Rocco ad oggi. Articolo 53 Codice Penale.
L’uso legittimo delle armi dal Codice Rocco ad oggi.
Articolo 53 Codice Penale
L’art. 53 Codice Penale: La disciplina normativa.
Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza.
La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica.
- PREMESSA
L’uso legittimo delle armi, scriminante prevista dall’art. 53 del c.p. ben esemplifica uno dei principi fondamentali di organizzazione dello Stato, ossia il ricorso alla forza quale strumento di garanzia dell’ordine legale e sociale.
In particolare, l’uso legittimo delle armi postula l’utilizzo di mezzi di coazione fisica, diretti a rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’attuazione della volontà dello Stato, cui nessuno Stato può rinunciare poiché equivarrebbe a sancire la propria fine. Lo dimostra implicitamente anche l’evoluzione storica dell’istituto, che evidenzia le difficoltà di giungere ad una soluzione giusta ed equa rispetto all’esigenza di contemperare le necessità statuali con gli interessi dei cittadini, il cui diritto alla vita ed all’incolumità personale è universalmente riconosciuto come diritto inviolabile.
- L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
L’uso legittimo delle armi è una causa di giustificazione, (è utile, preliminarmente, aprire una parentesi per ricordare a tutti che, nel diritto penale italiano, vengono definite cause di giustificazione, o anche scriminanti, quelle situazioni, normativamente previste, in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. Pertanto, in presenza di tali situazioni, un fatto che sarebbe altrimenti antigiuridico, tale non è perché la legge lo consente o lo impone. In presenza di una causa di giustificazione
il fatto è lecito sin dall’origine).
Chiusa la parentesi, riprendendo il discorso, diciamo quindi che l’uso legittimo delle armi è una causa di giustificazione “propria o privilegiata” del reato – privilegiata nel senso che, destinatari della norma sono esclusivamente i soggetti aventi la qualifica di pubblici ufficiali, così come, analogamente per quanto attiene alla correlativa ipotesi di cui all’art. 41 C. Pen. mil. di pace, i soggetti legittimati ad usufruire della stessa sono esclusivamente i “militari” – introdotta nell’ordinamento penale italiano con il codice del 1930, cd. codice Rocco, allo scopo di rimuovere la situazione di incertezza giuridica esistente durante la vigenza del previgente codice Zanardelli a causa del silenzio serbato da quest’ultimo sull’uso delle armi o della coazione in genere da parte degli agenti ed ufficiali della forza pubblica.
“Dal codice del ’30 la scriminante venne introdotta col dichiarato scopo di porre fine alle incertezze giurisprudenziali sul come ed entro che limiti giustificare l’uso delle armi contro le ribellioni all’autorità. In verità si trattava di una scriminante che, non tanto nella sua essenza, quanto per la sua autonoma previsione e soprattutto per la sua ampiezza, rivela una chiara impronta autoritaria, come comprova la non menzione della <<proporzione>. In coerente parallelismo si abrogò la scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale e si introdusse la autorizzazione a procedere per i reati commessi in servizio di polizia e relativi all’uso delle armi (art. 16 c.p.p.).”(tratto dal Manuale di Diritto penale, Parte generale, di Ferrando Mantovani, 1988, pag. 269).
In precedenza, per giustificare la liceità dell’impiego della coazione fisica da parte dei pubblici ufficiali, in assenza di specifiche disposizioni, si faceva ricorso allo stato di necessità o all’adempimento di un dovere legale o, infine, all’istituto della legittima difesa, su cui spesso solevano basarsi le sentenze di assoluzione.
La natura di scriminante dell’uso legittimo delle armi è pacificamente riconosciuta da tutta la dottrina che concorda, in massima parte, sul suo carattere di assoluta politicità, la cui introduzione nel codice rivela “un fenomeno di tutto rilievo e costituisce uno dei molteplici riflessi, sul piano normativo, dell’instaurazione del regime fascista e del consolidamento di un assetto istituzionale che si presenta eversore dell’ordinamento previgente”.
Tale convinzione è stata avvalorata anche dalla mancata menzione tra i requisiti dell’esimente della “proporzionalità” intesa come espressione di un bilanciamento tra interessi contrapposti alla luce della situazione concreta.
- PRESUPPOSTI E LIMITI DELL’USO LEGITTIMO DELLE ARMI
I. Come detto, l’istituto dell’uso legittimo delle armi è una disposizione autonoma, ma sussidiaria ed aggiuntiva, in quanto opera solo qualora difettino i presupposti della legittima difesa (art. 52 c.p.) e dell’adempimento del dovere (art. 51 c.p.), come si evince dalla clausola di apertura.
È proprio la stessa formulazione della norma che evidenzia il carattere sussidiario della stessa, l’inciso “ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti” costituisce una clausola di riserva, che favorisce l’applicazione delle scriminanti della legittima difesa e dell’adempimento del dovere laddove il comportamento del soggetto agente possa essere ivi ricondotto. Tale “sussidiarietà espressa” ha quale conseguenza la legittimazione dell’uso della forza nella tutela di un interesse pubblico e non di un diritto del pubblico ufficiale (elemento differenziale rispetto alla legittima difesa), inoltre nel rapporto con la scriminante dell’adempimento del dovere consente di scriminare non la condotta oggetto del dovere di adempiere, ma lo specifico mezzo coercitivo necessario all’adempimento del dovere (in ciò la sussidiarietà fra le due ipotesi).
Atteso che tale scriminante è applicabile solo a soggetti determinati, qualificabili come pubblici ufficiali, l’uso dell’arma dovrà essere considerato solo al fine di adempiere a un dovere del proprio ufficio, ovvero di eliminare un ostacolo che si è frapposto tra il pubblico ufficiale e il dovere da adempiere.
Questa impostazione porta ad escludere la scriminante non solo nei casi in cui il soggetto abbia agito per un fine privato (come uno scopo di vendetta), ma anche i casi in cui lo scopo fosse l’adempimento di una facoltà, non quindi un dovere del proprio ufficio.
II. I presupposti e i limiti dell’uso legittimo dei mezzi di coercizione fisica (armi o altri mezzi di coazione,) trovano nell’articolo 53 del codice penale una disciplina che si articola in tre ipotesi:
a) quella in cui l’uso dei mezzi di coercizione sia necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità (articolo 53, comma 1, parte prima, c.p.);
b) quella in cui la coercizione fisica sia necessaria per impedire la consumazione di una serie di gravissimi delitti (strage, omicidio volontario, rapina a mano armata ecc.) (articolo 53, comma 1, parte seconda, c.p.);
c) le ulteriori ipotesi previste da altre norme legislative in cui è consentito un uso più largo delle armi o degli altri mezzi di coazione fisica (articolo 53, comma 3, c.p.). (Parte tratta dal manuale di Marinucci, Dolcini, Gatta, anno 2020, pagg. 335 e ss.).
Quindi, nella prima parte del primo comma dell’art. 53 c.p., i casi in cui è possibile che il pubblico ufficiale faccia un uso legittimo delle armi sono due, e cioè: la necessità di respingere una violenza e la necessità di vincere una resistenza all’Autorità; mentre nella seconda parte del primo comma, per effetto della Legge Reale, il p.u. potrà fare uso delle armi per impedire la consumazione di una serie di gravissimi delitti.
Infine, nel terzo comma, la norma richiama gli altri casi determinati dalla legge nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coercizione fisica.
III. A questo punto è interessante passare all’analisi delle tre ipotesi scriminanti, contemplate nell’art. 53 c.p., procedendo alla individuazione dei limiti soggettivi ed oggettivi previsti per ciascuna di esse, anche alla luce delle opinioni della più illustre dottrina e degli arresti della giurisprudenza di legittimità.
A. Ebbene, con riferimento ai limiti soggettivi, è pacifico che, in tutte e tre le ipotesi individuate, la scriminante opera soltanto nei confronti dei pubblici ufficiali e non degli incaricati di un pubblico servizio. E, come specificato dal Mantovani nella parte generale del suo manuale di Diritto Penale del 1988, neppure di tutti i pubblici ufficiali di cui all’art. 357 c.p., ma solo degli appartenenti alla c.d. “forza pubblica” (appartenenti alla pubblica sicurezza o alla polizia giudiziaria; militari in servizio di pubblica sicurezza), che hanno istituzionalmente in dotazione armi o altri mezzi di coazione fisica.
Strettamente collegato al limite soggettivo è il requisito secondo il quale, come affermato sia dal Bettiol che dal Mantovani, il p.u. deve usare le armi al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio e pertanto non può farlo per finalità estranee alle sue funzioni (es.: per sfogare rancori o per motivi personali) e, aggiunge Mantovani, nemmeno per il solo fatto di essere nell’esercizio delle sue funzioni, bensì per eliminare un ostacolo che si è frapposto tra lui e il dovere da adempiere.
Ed inoltre, secondo il Mantovani, il p.u. deve trovarsi nello svolgimento di un’attività doverosa e non meramente facoltizzata.
B. Con riferimento ai limiti oggettivi , la dottrina è concorde nel ravvisare il primo requisito nella necessità di fare uso delle armi o degli altri mezzi coercitivi in quanto il p.u. deve trovarsi – secondo il Mantovani – nell’alternativa di usare le armi o gli altri mezzi coercitivi o di non adempiere al proprio dovere.
Il ricorso alle armi deve però presentarsi – come scrive Bettiol – come estremo rimedio.
Se l’ostacolo all’adempimento del proprio dovere è diversamente eliminabile, la scriminante non ricorre. Anche la giurisprudenza, del resto, afferma che il ricorso alle armi o ai mezzi di coazione fisica deve essere l’extrema ratio.
Aggiunge infatti Bettiol che l’uso delle armi “può avvenire solo quando il sacrificio di un bene individuale si presenti come assolutamente necessario per salvaguardarne uno di importanza maggiore. Diversamente, siamo nel campo dell’eccesso”.
Anche la Corte di Cassazione, del resto, ha ben sottolineato l’aspetto della extrema ratio:
“Ai fini della configurabilità della scriminante di cui all’art. 53 cod. pen. occorre che l’uso dell’arma costituisca l'”extrema ratio” e che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo ed altresì graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del principio di proporzionalità. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la scriminante nel caso di un carabiniere che aveva esploso alcuni colpi di arma da fuoco per forare i pneumatici di un veicolo allontanatosi precipitosamente all’atto della identificazione degli occupanti, cagionando il decesso di uno degli stessi, attinto da un colpo di rimbalzo).(Cfr., in tal senso, Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 35962 del 2 dicembre 2020).
È utile specificare che i mezzi di coazione fisica possono essere costituiti da verghe, bastoni, di legno o di gomma, getti d’acqua, bombe lacrimogene, ecc.. Oggi si deve sicuramente ricomprendere nell’elenco il Taser, o pistola elettrica.
Per giustificare l’uso delle armi, però, non è sufficiente una qualsiasi situazione necessitante (ad es.: una mera forma di dissenso o di disubbidienza, come ad esempio il rifiuto delle generalità), ma, secondo quanto si legge nella norma, nella prima delle tre ipotesi individuate – ossia in quella descritta nella prima parte del primo comma dell’art. 53 – deve sussistere la necessità di respingere una violenza, che può essere fisica o psichica, o di vincere una resistenza all’Autorità.
Altro requisito indispensabile è che la resistenza o la violenza siano attuali atteso che, naturalmente, in caso contrario, non ci sarebbe la necessità di usare le armi.
- IL SIGNIFICATO DELLA VIOLENZA
Sul significato della violenza, è opportuno riprendere l’ampia definizione fornita dalla Cassazione, secondo cui questa consiste nella “esplicazione di qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale” Cass. Pen., Sez. I, 21 giugno 2013, n. 40346. Nelle ipotesi de quibus l’uso dell’arma si configura come una reazione proporzionata quando è rapportata ad una condotta offensiva, idonea, per le sue modalità esplicative, a causare un danno (anche potenzialmente letale) alla incolumità e alla vita del pubblico ufficiale o a quella di terzi estranei.
È chiaro, quindi, che la violenza debba immaginarsi come un impiego di forza attiva, esplicata contro (ed ai danni) del pubblico ufficiale nell’esercizio dei suoi doveri d’ufficio.
Si pensi, ad esempio, a dei rapinatori armati che, fuoriuscendo da un istituto di credito appena svaligiato, ingaggiassero sulla pubblica via uno scontro a fuoco con i Carabinieri. Nella fattispecie è stata riconosciuta la scriminate, giacché i malviventi, nel corso della fuga, avevano continuato ad esplodere colpi d’arma da fuoco nonché preso in ostaggio tre persone (Cass. Pen., Sez. I, 16/02/2015, n. 6179), non solo per guadagnarsi la fuga, ma anche allo scopo di neutralizzare la resistenza opposta dalla forza pubblica.
L’interpretazione assegnata a questo termine, tuttavia, non ha sempre seguito un rettilineo, trovando piuttosto un percorso accidentato in relazione alle specificità dei casi concreti.
Infatti, come detto, l’orientamento della Suprema Corte ha ritenuto che, al fine di ritenere sussistente la “violenza”, la stessa, oltre al carattere della serietà, dovesse annoverare anche il carattere dell’attualità. Sicché il giudice di legittimità ha affermato che non risulta scriminata la condotta del pubblico ufficiale che, all’interno dell’auto di pattuglia, vistosi puntare addosso una rivoltella da un soggetto al centro della carreggiata, sia sceso ed abbia immediatamente esploso dei colpi di arma d’ordinanza, cagionandone il decesso (Cfr., in tal senso, Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854).
Si può obiettare che, dove di attualità del pericolo si tratti, anche impugnare minacciosamente un’arma in direzione del pubblico ufficiale sia da considerarsi violenza, venendosi a creare un reale e concreto rischio per la sua incolumità.
Inoltre, non va dimenticato che la natura dei beni posti in serio e credibile pericolo dalla condotta del soggetto colpito ben potesse ritenersi, nella succitata pronuncia, di pari rango rispetto a quelli minacciati (e cioè la vita e l’integrità fisica degli operatori di pattuglia). Non parrebbe così violato il canone della proporzionalità tra offesa (potenziale, ma allo stesso tempo ben attuale per le sue modalità esplicative, e reazione del pubblico ufficiale).
- LA RESISTENZA ALL’AUTORITÀ: BIPARTIZIONE TRA RESISTENZA ATTIVA E RESISTENZA PASSIVA
Questione maggiormente problematica è quella afferente il requisito di vincere una resistenza, in special modo laddove si verta in tema di resistenza passiva.
Con riferimento al limite oggettivo della necessità di vincere una resistenza all’Autorità, il Mantovani evidenzia che si discute se basti – come lo stesso ritiene – una resistenza passiva, quale l’inerzia o la fuga cui si ricorra per impedire al pubblico ufficiale di adempiere un dovere di ufficio, o se invece occorra una resistenza attiva, concretantesi in un atteggiamento minaccioso.
A parere dell’autore “Quest’ultima tesi non solo urta contro la lettera dell’articolo 53, facendo rientrare nella resistenza un comportamento attivo di coercizione psichica o di scontro che appartiene all’altra ipotesi della violenza, ma porta altresì a risultati inaccettabili. Non sarebbe consentito, ad esempio, sparare sulle gomme dell’auto dei banditi in fuga, né usare lacrimogeni per fare uscire chi si è barricato in casa per evitare l’arresto. Le valide finalità propostesi con tale tesi (es.: vietare che si spari contro le donne che si stendono al suolo per impedire alle auto della polizia di entrare nella fabbrica occupata) sono adeguatamente soddisfatte …. attraverso gli ulteriori limiti della inevitabilità e della proporzione”.
Muovendo da queste premesse, ossia dall’opinione di un illustre penalista quale è il Mantovani, appare chiaro che il tema della resistenza pone qualche problema.
Sul piano interpretativo, quindi, chiarita la natura attiva e attuale della violenza per cui l’impiego dell’arma si pone, il più delle volte, come reazione proporzionata con attenzione ai beni in gioco, spinoso problema è invece rappresentato dalla bipartizione della resistenza, sulla quale il legislatore tace.
Il problema della (difficile) distinzione fra resistenza attiva e resistenza passiva è abbastanza complesso.
La distinzione, come accennato, è prettamente giurisprudenziale e proprio per questo, in assenza di un chiaro confine normativo, risulta talora arduo stabilirne le coordinate. Si può osservare, del resto, come il dato legislativo non operi alcuna testuale distinzione.
Anzitutto va premesso che la distinzione trova la sua ragion d’essere nella necessità di evitare che condotte che non esplicano alcuna incidenza sull’attività posta in essere dal pubblico ufficiale, né siano idonee a porre in pericolo soggetti terzi, possano essere fatte oggetto di reazione violenta da parte degli operatori di polizia.
Secondo una interpretazione diffusa, la resistenza di cui parla la norma è intesa come resistenza attiva (si pensi ad esempio al caso di colui che al momento dell’arresto esplode un colpo di pistola contro il pubblico ufficiale e poi si dà alla fuga). Non vi rientrano dunque i casi di resistenza passiva, che è, per chiarire, quella opposta dagli scioperanti che si distendono sui binari per impedire il passaggio dei treni.
La dottrina più recente ha però criticato questa impostazione, argomentando sulla base del fatto che la norma in esame non distingue tra resistenza passiva e resistenza attiva e giungendo così a concludere che è ammissibile la scriminante anche se vi è una condotta passiva che mira a contrastare l’intervento dell’autorità che, in ogni caso, deve rispettare il criterio della proporzione.
La resistenza attiva, invece, presenta una particolare affinità con la violenza per il fine perseguito (che è sempre quello di opporsi ai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni) ma differisce in quanto difetta di azioni violente, direttamente esplicate contro l’autorità. Possono così realizzarsi condotte intimidatorie, al limite anche pericolose per l’incolumità di terzi soggetti, ma difetta la dimensione compiutamente violenta esaminata in precedenza.
Si prenda, ad esempio il caso del soggetto che, non arrestatosi all’alt intimato dai carabinieri, non solo si allontani in auto a folle velocità, ma guidando in modo “che ad essa si accompagnino manovre che concretino – sul piano teleologico – una vera e propria intimidazione contro il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), atta a paralizzarne o contrastarne l’attività” (Cass. Pen., Sez. VI, 29/05/1996, n. 7061. V. anche, in tema di resistenza attiva, Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 dove i malviventi <<avevano reagito all’intimazione di alt da parte di una pattuglia di carabinieri tentando di speronare l’autovettura di servizio, per poi darsi a spericolata fuga per strade urbane, mettendo a repentaglio l’incolumità dei passanti>> (venendo così a configurarsi una resistenza “destinata ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’esplicazione della funzione pubblica (o del servizio pubblico)”(Ibidem).
In situazioni simili, l’impiego dell’arma può ritenersi proporzionato quando si configuri come l’unico strumento atto a superare tale “resistenza costruttiva”. Chiarisce infatti la Cassazione che ciò occorre quando “l’uso che può realizzarsi solamente nel caso egli [cioè il pubblico ufficiale] si trovi di fronte alla necessità di […] superare una resistenza costruttiva” (Ibidem).
Ancora, secondo la Suprema Corte ricorre l’ipotesi della resistenza attiva, risultando giustificato l’uso intimidatorio della pistola d’ordinanza, in caso di esplosione in aria di colpi d’arma da fuoco da parte del carabiniere che, invitati più corrissanti a cessare la rissa in corso, resistevano attivamente all’ordine continuando a picchiarsi (Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/2004, n. 7337).
Resta ora da ricostruire la nozione di resistenza passiva.
Considerato quanto detto sinora, appare agevole individuare tale figura con attenzione ad una forma non violenta di opposizione agli atti posti in essere dagli operatori di polizia.
Per quanto il fine perseguito da chi resiste possa anche qui individuarsi nella volontà di sottrarsi agli atti d’ufficio, ciò che difetta è tanto la componente violenta quanto quella “costruttiva”. Il soggetto si oppone in modo tale da non determinare nessuna situazione dannosa o pericolosa per gli operatori di polizia o per terzi.
- LA RESISTENZA PASSIVA E LA FUGA
Secondo il giudice di legittimità “la scriminante dell’uso legittimo delle armi è configurabile anche quando l’attività dell’agente è posta in essere nel corso della fuga dei malviventi, purché detta fuga non sia finalizzata esclusivamente alla conservazione dello stato di libertà ma, per le sue modalità, determini l’insorgere di pericoli per l’incolumità di terzi” (Cass. Pen., Sez. IV, 16/02/2015, n. 6719.).
Si ricava, a contrario, che la natura inoffensiva della fuga, unita all’assenza di qualsiasi danno o pericolo, vedrebbe come sproporzionato l’impiego delle armi per farla cessare.
Lapalissiana l’affermazione in questione se si tiene conto di quanto ribadito dalla Suprema Corte, per la quale “L’uso delle armi nei confronti di persone disarmate, datesi alla fuga per sottrarsi all’intimazione o all’arresto, non è legittimo, trattandosi di comportamento di resistenza passiva” (Cass. Pen., Sez. I, 21/05/1991, n. 5527).
Quanto appena detto è inoltre ben specificato in una pronuncia che, nell’individuare le caratteristiche della resistenza attiva, individua il discrimine proprio nella probabile realizzazione di ulteriori reati da parte di chi si sottrae agli atti compiuti dai pubblici ufficiali, richiamando il criterio di proporzionalità (Secondo Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 “quando l’uso dell’arma sia finalizzato a bloccare la fuga di malviventi, la suddetta proporzione dev’essere ritenuta sussistente ove, per le specifiche modalità con le quali i fuggitivi cercano di sottrarsi alla cattura, siano ragionevolmente prospettabili, oltre all’avvenuta commissione di reati al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, anche rischi attuali per l’incolumità e la sicurezza di terzi”. Ed anche “l’inosservanza dell’ordine di fermarsi impartito dal pubblico ufficiale integra una resistenza meramente passiva, inidonea a giustificare l’uso dell’arma da parte di quest’ultimo. (Fattispecie relativa a riconoscimento di responsabilità per il reato di cui all’art. 589 c.p. di un brigadiere dei carabinieri il quale, dopo avere intimato l’alt ad un veicolo sopraggiungente, vedendo che il conducente non si arrestava e proseguiva la marcia, ha esploso un colpo di pistola in direzione del mezzo, direttamente colpendo a morte il guidatore)”, (Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 01/03/1995, n. 2148).
La mera volontà di riguadagnare la libertà, dunque, divincolandosi, strattonando, correndo, non giustifica, per contro, l’impiego dell’arma: insomma, ove manchi la violenza o una dimensione attiva di resistenza, verrà a mancare sin dall’origine la proporzione, ove l’arma venisse impiegata.
In tema di uso legittimo di armi, nel caso di resistenza posta in essere con la fuga, manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma e il carattere non violento della resistenza opposta al pubblico ufficiale.
La giurisprudenza della Suprema Corte, in materia di fuga, ha modificato radicalmente, così, l’originaria prospettiva interpretativa, abbandonando la ricerca della necessaria qualificazione giuridica delle situazioni necessitanti l’uso degli strumenti coattivi, focalizzando invece l’attenzione sulla condotta complessiva tenuta dal fuggitivo che, se considerata pericolosa e mettente a repentaglio beni di fondamentale importanza, quali la vita di passanti, giustifica l’uso delle armi da parte dei pubblici ufficiali.
In tale prospettiva, il criterio rilevante a conferire legittimità all’utilizzo dei mezzi coattivi si attesta nella necessaria proporzione tra i beni in conflitto, quale principio immanente alla scriminante prevista dall’art. 53 c.p..
Si è significativamente rilevato, sempre nell’ambito del requisito della proporzionalità fra beni e mezzi, come non assuma rilevanza l’illiceità o meno della condotta ostativa del privato, rilevando unicamente la sua finalità oppositiva a un provvedimento dell’autorità (così Delogu, «L’uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione fisica», in Archivio Penale, 1972, 191).
Secondo il Mantovani: “…. è particolarmente rispetto ai casi di mera resistenza passiva che le armi possono essere, di regola, sostituite con mezzi coercitivi meno lesivi. È punibile il pubblico ufficiale che spara sul fuggitivo, uccidendolo, mentre per arrestarlo bastava mirare alle gomme; o che fa sgombrare i binari ferroviari o l’immobile usando gravi violenze sulle occupanti, quando sarebbero stati sufficienti i mezzi più blandi di coazione fisica (esempio il sospingerle o il trasportarle di peso fuori dai luoghi occupati).
Parimenti implicito deve considerarsi il limite della proporzione tra il bene leso e quello che l’adempimento del dovere di ufficio tende a soddisfare.
Non se ne fa menzione nell’articolo 53 perché il legislatore del 30 nel bilanciare gli interessi in conflitto ritenne di dare la prevalenza, a priori, all’interesse pubblico del pronto adempimento dei doveri d’istituto rispetto ai beni dei cittadini. Poiché tale assoluta prevalenza non è più compatibile con la gerarchia dei valori fissata dalla Costituzione, se non si vuole ritenere incostituzionale l’articolo 53, bisogna ammettere che il bilanciamento degli interessi, che è alla base della scriminante, va fatto in concreto, caso per caso.
La proporzione perciò sussiste quando l’uso delle armi non lede un interesse avente, per l’attuale ordinamento, maggior valore di quello soddisfatto con l’adempimento del dovere, che si voleva impedire. Legittimo è l’uso delle armi, ad esempio, per impedire l’assalto al Parlamento. Assurdo sarebbe, invece, scriminare la morte di uno o più soggetti, che facendo resistenza, impediscono ad un pubblico ufficiale di adempiere un dovere posto a garanzia di un interesse, altrimenti tutelato con una contravvenzione.
Ricondotto ai suddetti limiti, l’uso delle armi e dei mezzi di coazione fisica viene convertito da scriminante di Regime a strumento di tutela dell’ordine democratico” (Cfr. Ferrando Mantovani, Diritto Penale, 1988, pag. 271-272). La esplosione di
Giurisprudenza e dottrina erano concordi nel ritenere che l’unica forma di resistenza tale da legittimare l’uso delle armi fosse la resistenza attiva (la cui distinzione rispetto alla precedente ipotesi della violenza ha suscitato più di qualche dubbio), mentre quella passiva, a cui deve assimilarsi la “fuga”, sarebbe per sua stessa natura ritenuta insufficiente per giustificare l’applicazione dell’art. 53 c.p., in quanto si andrebbe a concretizzare in meri atteggiamenti passivi, e la volontà resistente sarebbe priva di connotazione fisica, rendendo di conseguenza sproporzionato e immotivato, e ovviamente illegittimo, l’eventuale utilizzo delle armi da parte del pubblico ufficiale, anche nell’ipotesi in cui sia previsto l’obbligo d’arresto da parte degli appartenenti alle forze dell’ordine o la facoltà d’arresto in flagranza da parte del privato (Cfr. Cass., n. 7570/1999, in tema di furto tentato).
Tale assunto generale, tuttavia, negli ultimi tempi sembra cedere il passo a una posizione più flessibile sia in seno alla giurisprudenza (Cass., Sez. IV, 7 giugno 2000, Bracarelli), sia nell’ambito della dottrina, la quale rileva significativamente come l’automatica e generale esclusione della rilevanza della resistenza passiva e della fuga dall’ambito operativo dell’art. 53 c.p. sarebbe troppo semplicistico e penalizzante per l’operatore di polizia.
La nuova tendenza in ordine all’applicabilità dell’art. 53 c.p. sembrerebbe porre in secondo piano la distinzione fra resistenza attiva e passiva, a favore del criterio della proporzione o di bilanciamento fra i contrapposti interessi.
Tale principio, sebbene non espressamente richiamato dal dettato codicistico, deve considerarsi implicitamente operante, anche in virtù di una lettura costituzionalmente orientata della norma, che porta all’attuazione di un necessario bilanciamento da effettuarsi caso per caso. Bilanciamento che deve avvenire tanto fra i beni in conflitto (vale a dire il valore dei differenti interessi contrapposti), quanto fra i mezzi impiegati e la resistenza da vincere, così da delimitare i confini di applicabilità della scriminante dell’uso legittimo delle armi.
Da ciò deriva che la resistenza passiva se non giustifica di per sé l’uso dell’arma, di certo consente l’uso di mezzi di coazione diversi e meno invasivi, in modo che l’uso della forza sia rigorosamente proporzionato al tipo e al grado della resistenza opposta (Cfr., infra, paragrafo 11., sent. d. – Cass., n. 854/2008), contemplando anche un uso persuasivo e intimidatorio dell’arma stessa.
Nello specifico della “fuga” autorevole dottrina ha rilevato come essa di per se considerata non lede, né pone in pericolo beni primari, e non deve essere “confusa” con la condotta antecedente (che realizza la concreta lesione o pericolo ai beni di rilevante importanza). Si deve quindi proporzionare l’uso della forza non alla gravità del reato commesso, ma alla forma di resistenza successivamente posta in essere dal soggetto che tenta di sottrarsi alla cattura (così Mantovani).
Le concrete dinamiche della fuga e la complessità della vicenda saranno, quindi, gli elementi in base ai quali calibrare e proporzionare la risposta e l’eventuale uso della forza, compreso l’utilizzo delle armi, il tutto nella consapevolezza che al pubblico ufficiale chiamato all’adempimento del dovere, al contrario delle ipotesi di legittima difesa o dello stato di necessità, non viene riconosciuta la possibilità di rinuncia o di un commodus discessus (Cass., n. 20031/2003; Cass. n. 9961/2000).
La più recente giurisprudenza, in tal senso, si mostra concorde nel ritenere che laddove le modalità siano tali da porre a repentaglio l’incolumità e la sicurezza di terze persone (si pensi alle ipotesi di fuga “armata” o di fuga con un’autovettura a folle velocità in una zona densamente popolata), l’uso delle armi è da considerarsi legittimo, sempre che non sia possibile un diverso intervento meno lesivo (utilizzo dell’arma come extrema ratio) e che vi sia una graduazione dell’intervento nell’ambito del principio di proporzione.
- CEDU E USO LEGITTIMO DELLE ARMI. L’ART. 2 DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Alcune problematiche interpretative e applicative sono sorte nel rapporto fra la scriminante di cui all’art. 53 c.p. e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 2 (concernente la protezione del diritto alla vita di ogni individuo) stabilisce che «la morte non è considerata inflitta in violazione di questo articolo quando derivasse da un ricorso alla forza reso assolutamente necessario:
a) per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale;
b) per eseguire un arresto legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta;
c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione».
Nello specifico vi è stata la pronuncia della Suprema Corte, n. 20031/2003, rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale, la quale, in un’ottica ampliativa della scriminante, ha ritenuto immediatamente applicabile nel nostro ordinamento il suddetto art. 2 Cedu e ha ritenuto giustificato l’utilizzo dell’arma per attingere il fuggitivo anche nell’ipotesi di mera fuga, in maniera aprioristica, senza valutazione alcuna delle concrete modalità e prescindendo dal criterio della proporzione.
Le critiche che si sono dirette verso tale pronuncia sono state molteplici e fondate, dalle questioni afferenti la diretta e immediata applicazione della Convenzione nel nostro ordinamento in quanto ritenuta norma di diritto comunitario (in senso contrario, in dottrina si ritiene significativamente che ci troviamo di fronte a norma del diritto internazionale pattizio), a quelle relative all’erroneo bilanciamento degli interessi, poiché, contrariamente all’insieme dei valori espressi dalla Carta Costituzionale (in cui il bene della vita si pone all’apice della gerarchia dei beni tutelati), nella sentenza in commento il grave pericolo alla vita dei soggetti in fuga viene considerato secondario rispetto all’interesse alla cattura dei fuggitivi.
Si è rilevato, di converso, come solo apparentemente sembra porsi un conflitto di norme fra art. 53 c.p. e art. 2 Cedu, poiché in entrambe le ipotesi hanno pieno vigore i principi di necessità (questo espressamente indicato dallo stesso art. 2 Cedu) e proporzione. Inoltre la norma codicistica contiene un rinvio generico agli altri casi stabiliti dalla legge, in cui si può agevolmente far confluire la norma internazionale di cui in discussione, in quanto ratificata con legge dello Stato.
Tuttavia, la questione è stata oggetto di specifica disamina da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Alikaj contro Italia, nell’ambito del quale è stata riscontrata la violazione dell’art. 2 CEDU tanto sul piano sostanziale tanto su quello procedurale (sentenza del 29 marzo 2011).
Il fatto traeva origine dall’uccisione di Julian Alikaj, privato della vita da un colpo di arma da fuoco esploso da un ufficiale della polizia nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1997 durante un inseguimento.
I primi atti di indagine vennero eseguiti da alcuni ufficiali dello stesso corpo di appartenenza dell’agente coinvolto, a carico del quale si aprì un procedimento penale per omicidio volontario, conclusosi in primo grado con sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”.
In secondo grado, la Corte d’Assise di Bergamo dichiarò la colpevolezza dell’imputato previa riqualificazione dei fatti nella fattispecie di omicidio colposo anzichè volontario. Tuttavia, a causa dell’applicazione delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza sulle contestate aggravanti, il Collegio territoriale dichiarò estinto il reato per intervenuta prescrizione.
Avverso tale sentenza il Procuratore Generale propose ricorso per Cassazione che, però, fu respinto.
Dinanzi a tale saga processuale, i parenti del giovane Alikaj decisero di adire la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 CEDU, nonché quella degli artt. 6 e 13 CEDU.
Ebbene, come si evince dalla lettura della sentenza datata 29 marzo 2011, le doglianze proposte contro lo Stato italiano hanno trovato accoglimento: in primo luogo, la Corte, con riguardo al profilo sostanziale dell’art. 2 CEDU, ha ribadito l’obbligo, per gli Stati membri, di regolare in modo minuzioso l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, in conformità con le direttrici tracciate dagli strumenti internazionali ad hoc, e in particolare delle UN Basic Rules on the Use of Force and Firearms by Law Enforcement Officials del 1990.
Come è noto, lo Stato italiano, in tal senso, è privo degli strumenti normativi necessari.
In secondo luogo, il Collegio di Strasburgo, con precipuo riferimento all’uso della forza letale, ha affermato che ai fini della legittimità dell’actio lesiva deve sussistere uno stringente nesso di necessarietà rispetto all’effettivo pericolo da scongiurare.
Dal punto di vista procedurale, la Corte EDU ha rilevato la violazione dei principi pattizi in duplice direzione: in primis, viene stigmatizzata la mancanza di indipendenza e imparzialità delle indagini, poiché le fasi iniziali erano state poste in essere da agenti appartenenti allo stesso comando dell’agente coinvolto. In seconda battuta, è stato rilevato che l’intervenuta prescrizione ha privato i parenti della vittima della possibilità di poter assistere all’attuazione di giustizia.
In sintesi, i principi dettati dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 29 marzo 2011 – Ricorso n. 47357/08 – Alikaj e altri c. Italia, si compendiano in tal senso: « Il ricorso alla forza non può essere ritenuto “assolutamente necessario” quando è noto che la persona che deve essere arrestata non rappresenta una minaccia per la vita o per l’integrità fisica altrui e non è sospettata di aver commesso un reato violento. Pertanto, costituisce violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU), sotto l’aspetto sostanziale, l’aver cagionato la morte di un individuo in fuga, colpito da un agente di polizia durante l’inseguimento. Costituisce altresì violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU), sotto l’aspetto procedurale, il fatto che la conseguente inchiesta venga svolta – quanto meno in relazione ai primissimi accertamenti – dalla stessa autorità pubblica cui appartiene l’agente di polizia indagato. Il diritto alla vita risulta altresì violato allorquando il processo penale si concluda con una pronuncia di non luogo a procedere per l’intervenuta prescrizione del reato, in quanto tale esito non offre un’adeguata riparazione dell’offesa arrecata al valore sancito dall’articolo 2 della Convenzione».
- LIMITI OGGETTIVI DELLA SECONDA IPOTESI DELLA SCRIMINANTE DELL’USO LEGITTIMO DELLE ARMI INTRODOTTA DALLA LEGGE REALE DEL 1975
Come appena visto, per la prima ipotesi di uso legittimo delle armi descritta nella prima parte del primo comma dell’art. 53, sono richiesti, quali limiti oggettivi, la necessità, la proporzione ed una situazione di violenza o resistenza all’autorità.
Ebbene, anche con riferimento alla fattispecie di scriminante descritta nella seconda parte del primo comma dell’art. 53, i limiti oggettivi operanti dovranno essere necessità e proporzione ma, implicitamente, il dato letterale richiede anche una situazione che configuri gli estremi del tentativo di uno dei delitti menzionati dalla norma (strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona).
Secondo il Mantovani, nella sua non chiara formulazione e nella sua dubbia innovazione, l’aggiunta apportata dall’art. 14 della Legge 22 maggio 1975, n. 152 – meglio conosciuta come Legge Reale – in seguito alla esplosione della criminalità di quegli anni, “sembra aver inteso affermare che l’uso delle armi è altresì legittimo, pur in assenza di violenza o resistenza all’Autorità: a) durante l’iter dei gravi delitti ivi elencati e non oltre la loro consumazione, nel cui ambito si versa fino a quando la lesione non si sia consolidata (es.: contro il rapinatore che fugge), mentre è controverso se debba essere varcata la soglia del tentativo punibile; b) sempre che vi sia la necessità dell’azione armata impeditivo e la sua non sostituibilità con altro mezzo di intervento meno offensivo.
…….. anche per l’uso legittimo delle armi deve ritenersi sottinteso il limite della inevitabilità altrimenti del fatto ostativo, cioè con mezzi coercitivi meno offensivi di quelli usati.
Ciò ancor più per il fatto che la forza pubblica ha una disponibilità sempre più ampia di armi e di mezzi coazione fisica della più varia potenzialità offensiva (armi automatiche, proiettili di gomma, sfollagente, idranti, lacrimogeni, ecc.). Così non si può sparare su un assembramento se è possibile vincere la violenza con lacrimogeni ed idranti.
Certa criminalità ha portato nella metà degli anni 70 a ridilatare la portata della scriminante.
A proposito della modifica apportata all’art. 53 c.p. dalla Legge Reale, Ivo Caraccioli, nel suo Manuale di Diritto penale del 1998 scrive che “Nel 1975 l’articolo 53 è stato modificato con l’aggiunta dell’ipotesi che prevede sempre la costrizione dalla necessità, con riferimento peraltro all’impedimento di alcuni gravi delitti (strage, naufragio, sommersione, disastro aviatori, ferroviario, omicidio volontario, rapina mano armata e sequestro di persona), sulla base di un’elencazione che deve ritenersi tassativa e che fa riferimento a specifiche fattispecie criminose contemplate nel codice penale. Pur in assenza della proporzione, non richiamata neppure in ordine all’ipotesi in esame, l’articolo 53 risulterà, dunque, applicabile quando l’aggressione agli interessi altrui, nei settori considerati, non sia ancora in atto, trattandosi genericamente di impedire la consumazione dei reati in questione (ad esempio uso delle armi contro un gruppo di persone che sta soltanto organizzando una strage od un disastro, senza avere ancora dato attuazione a veri e propri comportamenti materiali); e quindi anche quando gli stessi non integrano ancora estremi di tentativo. La conclusione, particolarmente rigorosa, si impone, al di là di pretestuosi tentativi di ridimensionamento dell’innovazione, sia per l’inequivoca lettura della legge, sia per la gravità dei fatti che si cerca di impedire, e rispetto ai quali l’allargamento dell’articolo 53 ha voluto avere un forte effetto deterrente. Infatti la cosiddetta legge Reale sull’ordine pubblico, legge 22 maggio 1975 numero 152 che ha introdotto questa ipotesi di uso legittimo delle armi è sorta in un’epoca di terrorismo e di tragedie nazionali (i cosiddetti anni di piombo) che hanno aperto ferite non ancora rimarginate”.
Nel suo Corso di diritto penale, del 2015, Adelmo Manna, a pag. 324, scrive che, con riferimento alla innovazione apportata dalla legge Reale del 1975 occorre considerare che “Nella nuova ipotesi la norma si apre soltanto al requisito della necessità di impedire la consumazione, con la conseguenza che vi è il fondato pericolo di un uso legittimo delle armi anche prima che i reati de quo siano giunti a livello del tentativo punibile giacché, ragionando diversamente, saremmo già in presenza dell’ipotesi originaria di cui all’articolo 53 del codice penale, se non, addirittura, della legittima difesa. In tal modo però la scriminante in oggetto, nella sua più recente formulazione, assume una fisionomia ancora più inquietante, rispetto a quella, pur preoccupante, del codice Rocco, e che denota i guasti che può provocare una legislazione sorta sull’onda di una prospettiva emergenziale.
Più in particolare, va osservato che, seguendo la prospettiva sinora lumeggiata, ne consegue che il pubblico agente potrebbe usare legittimamente delle armi anche per impedire <<atti preparatori>>, il che però contrasta, non solo con la notoria irrilevanza penale di questo tipo di atti, ma anche, soprattutto, con la conseguente osservazione per cui non è assolutamente facile individuare di quale delitto sia preparatorio l’atto in questione, proprio perché l’atto preparatorio è di per sé equivoco. In conclusione, proprio per evitare le aberranti conseguenze cui si può giungere aderendo ad una interpretazione logico letterale della norma in esame, non può che ribadirsi anche in questo caso la necessità di far ricorso, quale elemento generale di tutte le scriminanti, al requisito della proporzione tra i beni e i mezzi utilizzati”.
Secondo quanto si legge nel manuale di Marinucci, Dolcini, Gatta, invece, dopo quelli della necessità e della proporzione, “un ulteriore limite a questa ipotesi di uso legittimo della coazione fisica si ricava in via interpretativa dalla formula “impedire la consumazione” dei delitti di strage, etc.. Il concetto di consumazione è strettamente correlato a quello di tentativo, cosicchè il momento in cui può essere impedita la consumazione è quello in cui – esauriti gli atti preparatori e iniziata l’esecuzione del reato – già sussistano gli estremi del tentativo di uno dei delitti contemplati dall’art. 53 co.1 pt. II c.p..
Così, ad es., sarà lecito sparare per impedire una rapina a mano armata – sempre che tale condotta sia necessaria e proporzionata – quando il rapinatore sia entrato nella banca e abbia spianato le armi verso il cassiere, ma non quando, pur armato di tutto punto e animato dall’intenzione di commettere la rapina, si stia ancora avvicinando alla porta d’ingresso della banca.”
- LA TERZA IPOTESI DELLA SCRIMINANTE DELL’USO LEGITTIMO DELLE ARMI DI CUI AL TERZO COMMA DLL’ART. 53 C.P.
L’ultimo comma dell’articolo 53 fa riferimento alle ulteriori ipotesi di uso legittimo della coazione fisica previste dalla legislazione speciale: in proposito vanno ricordate alcune speciali disposizioni in tema di uso delle armi alla frontiera per la repressione dei reati di contrabbando, in cui, secondo quanto si legge in Manna, “tale uso è autorizzato addirittura oltre i già ampi limiti dell’articolo 53 c.p.”.
Marinucci, Dolcini e Gatta scrivono che più ampie ipotesi dell’uso legittimo delle armi o di altri mezzi di equazioni fisica sono previste da alcune leggi speciali alle quali far rinvio l’ultimo comma dell’articolo 53 c.p..
In primo luogo, si tratta delle ipotesi contemplate dalla legge 4 marzo 1958 numero 100 in materia di repressione del contrabbando. Tra l’altro i militari, gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria addetti alla repressione del contrabbando nelle zone di frontiera, possono fare uso delle armi quando il contrabbandiere sia palesemente armato, ovvero il contrabbando sia compiuto di notte, o i contrabbandieri agiscano in un gruppo di almeno tre persone .
L’uso delle armi è altresì consentito quando il contrabbandiere si dia alla fuga, a meno che non abbandoni il carico.
La legge citata autorizza inoltre gli stessi soggetti a fare uso delle armi contro gli autoveicoli, quando il conducente non ottemperi all’intimazione di fermo e non vi sia la possibilità di raggiungerlo: si tratta dell’autorizzazione di un’attività pericolosa per la vita dei conducenti o di terzi, che invece non è consentita nelle ipotesi disciplinate in via generale dall’articolo 53 del codice penale.
Ulteriori ipotesi speciali di uso legittimo delle armi, anche se controversa l’attuale vigenza delle relative norme, attengono alla vigilanza interna ed esterna degli istituti penitenziari e ai passaggi abusivi di frontiera.
Nel complesso, va sottolineato che su tutte queste disposizioni gravano seri dubbi di legittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza ex articolo 3, comma uno della Costituzione: non trova infatti un fondamento plausibile la scelta del legislatore di sottrarre queste ipotesi alla disciplina generale dell’uso legittimo delle armi, così da consentire il sacrificio di beni individuali di altissimo rango, come la vita e l’integrità fisica, per salvaguardare beni di rango enormemente inferiore.
Si tratta, inoltre, di norme di favore che la corte costituzionale potrebbe dichiarare costituzionalmente illegittime perché sottraggono le cennate ipotesi alla disciplina generale dell’uso legittimo delle armi, in contrasto con l’art. 2 CEDU sulla tutela del diritto alla vita, che certamente vieta l’uso di una forza letale in assenza di un pericolo per la vita o per l’incolumità degli agenti o di terzi. (In questo senso cfr. Corte EDU 29 marzo 2011, Alikaj contro Italia.).
- CONCLUSIONI
Per concludere, volendo sintetizzare al massimo la trattazione che precede, si può dire che l’uso legittimo delle armi rientra nello schema tipico di una scriminante propria, poiché applicabile a figure specifiche come pubblici ufficiali e loro ausiliari. Sulla stessa concezione di pubblico ufficiale sono intervenute ulteriori specificazioni che hanno ristretto, secondo logica, l’ambito applicativo della norma a coloro i quali, a causa del proprio dovere istituzionale, hanno la possibilità dell’uso della coazione fisica; quindi, l’applicabilità della scriminante in oggetto è limitata agli appartenenti alla forza pubblica e ai militari in servizio di pubblica sicurezza. La sua applicazione deve, inoltre, essere sussidiaria rispetto alle ipotesi di adempimento di un dovere e legittima difesa, e deve avere quale fondamento operativo il fine di adempiere un dovere del proprio ufficio. In merito alle concrete ipotesi applicative si riteneva che la mera resistenza passiva non legittimasse detto uso delle armi, ma le pronunce della Suprema Corte sembrano rivedere detto principio assoluto, ritenendo che anche in caso di fuga, al di là di aprioristiche posizioni generali, si debbano valutare gli indefettibili principi della necessità e della proporzione, oltre all’avvenuta commissione di reati al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, anche rischi attuali per l’incolumità e la sicurezza di terzi (Cass., n. 9961/2000). Alla luce del noto caso Alikaj contro Italia del 2011 , la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha rilevato la violazione sostanziale e procedurale dell’art.2 CEDU con specifica istanza di maggiore rigore da parte dei giudizi nazionali nella valutazione dei presupposti legittimanti l’uso delle armi da parte dei pubblici ufficiali.
Ciò posto, come visto, in dottrina vi è chi ha osservato come la disciplina della scriminante dell’uso legittimo delle armi, contenuta nell’art. 53 cp, rappresenti un’aporia in un sistema che dovrebbe essere teleologicamente orientato all’integrazione sociale.
In particolare, il mancato espresso riferimento, nella norma, al requisito della proporzione avrebbe l’evidente funzione di privilegiare la condotta repressiva del pubblico ufficiale, attestando la supremazia di uno Stato autoritario verso il cittadino e affermando parametri di prevenzione generale negativa.
Gli apprezzati sforzi interpretativi compiuti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, tesi a ricondurre entro margini accettabili per il nostro attuale ordinamento l’applicazione di questa causa di giustificazione, si scontrerebbero comunque con la sua struttura e soprattutto con la ratio della norma, impedendone una legittimazione secondo i parametri ordinamentali dello stato sociale di diritto.
In tal senso, apparirebbe inconciliabile con una prospettiva della pena come integrazione sociale la disposizione aggiunta all’art. 53 cp dall’art. 14 della legge 22 maggio 1975 n. 152, tipica della legislazione dell’emergenza, che seppur per i gravissimi comportamenti criminosi di cui fa menzione, non può non aver avuto la funzione di anticipare l’intervento coercitivo del pubblico ufficiale anche ad un momento anteriore a quello dell’inizio dell’esecuzione di tali reati, aprendo alla possibilità di reprimere con le armi anche meri atti preparatori, trattandosi, in caso contrario, di una norma del tutto superflua.
Il fenomeno dell’interpretazione c.d. “adeguatrice” ai principi costituzionali, che conduce a un’applicazione costituzionalmente orientata, va visto, tuttavia, quale principio ormai consolidato in ambito giurisprudenziale, prima ancora che dottrinale, poiché “il giudice ordinario interpreta la legge in senso conforme alla Costituzione; egli è tenuto a rimettere la questione d’incostituzionalità alla Corte Costituzionale soltanto in caso di verificata impossibilità di un adeguamento per via interpretativa; la dichiarazione d’illegittimità costituzionale è la soluzione estrema”.
Il controllo sulla costituzionalità delle leggi, finalizzato all’adeguamento della legislazione ai valori supremi dell’ordinamento, espressi in particolare dalla carta costituzionale e dal diritto comunitario, si potrà pertanto ritenere articolato in due fasi. Una prima affidata direttamente al giudice ordinario, che sarà tenuto a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quella conforme ai principi costituzionali, scartando tutte quelle difformi, così esercitando un controllo diretto sulla costituzionalità delle leggi, concorrente con quello della Corte Costituzionale; una seconda fase, eventuale, attribuita naturalmente alla competenza del giudice costituzionale, che si aprirà solo in caso d’impossibilità di un’interpretazione adeguatrice del giudice ordinario, apparendo significativo, in tal senso, che non risulti, finora, che per l’art. 53 cp sia mai stata formalmente eccepita l’incostituzionalità.
Avv. Massimo Biffa