L’uso legittimo delle armi nella Giurisprudenza della Cassazione. FOCUS sulla scriminante putativa e sull’eccesso colposo.
L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE.
FOCUS SULLA SCRIMINANTE PUTATIVA
E SULL’ECCESSO COLPOSO
- INTRODUZIONE
Un’analisi solo dottrinaria e dogmatica non permetterebbe di cogliere a pieno la portata e il significato di tale istituto, né risulterebbe intellegibile un criterio di distinzione tra questa scriminante e le altre.
Pertanto un’esposizione della casistica giurisprudenziale può risolvere qualche dubbio e rendere più interessante la trattazione del tema.
I-a) Chi mi ha pregevolmente preceduto nell’intervento si è a lungo soffermato sui presupposti di operatività della scriminante in commento.
A tal riguardo la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in modo inequivocabile circa la necessaria presenza tanto della necessità dell’utilizzo dell’arma, quanto della proporzione tra l’evento e la reazione.
Con la sentenza n. 41038/2014 del 16.06.2014, infatti, i Giudici della III Sezione Penale della Cassazione censuravano la lettura dell’art. 53 c.p. data dalla Corte d’Appello di Palermo.
Quest’ultima aveva ritenuto presente la situazione di necessità in un caso in cui un maresciallo dei Carabinieri aveva sparato con un fucile da tiro a volo verso tre ragazzi su un motorino che, ignorando l’alt intimato dalla volante, si lanciavano in una folle fuga per le strade di Palermo, mettendo in pericolo i passanti e gli altri veicoli.
Questa situazione di pericolo per l’incolumità pubblica, secondo i Giudici palermitani, poteva evocare il requisito della necessità (intesa quale “necessità” ex art. 53 c.p.) di un intervento da parte del carabiniere imputato.
Correttamente la Cassazione rilevava, al contrario, che “per il riconoscimento della scriminante deve sussistere il presupposto oggettivo costituito dalla necessità di respingere una violenza, vincere una resistenza o impedire la commissione di determinati delitti”.
E di seguito aggiungeva che l’uso delle armi “deve costituire extrema ratio nella scelta dei metodi necessari”: diventa cioè legittimo solo qualora non vi sia altro mezzo con minore capacità offensiva possibilmente ed utilmente utilizzabile.
Quindi nella stessa decisione i giudici di Piazza Cavour ricostruivano in maniera più ampia e generale i presupposti per il legittimo uso delle armi, precisando che, affianco al già menzionato requisito della necessità, pari importanza riveste il requisito della proporzione inteso come “espressione dell’esigenza di una gradualità nell’uso dei mezzi di coazione (tra più mezzi di coazione ugualmente efficaci, occorrerà scegliere allora quello meno lesivo)”.
I-b) Le peculiarità dell’istituto dell’uso legittimo delle armi e il proprio ambito d’applicazione specifico si possono cogliere in un’altra importante sentenza della IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione, la numero 6719 del 22.05.2014.
L’episodio concerneva una rapina ai danni di un ufficio postale da parte di tre malviventi, che avevano costretto la direttrice a ritardarne l’apertura asserragliandosi all’interno con numerosi ostaggi.
I rapinatori uscivano con la refurtiva con due ostaggi; nello stesso momento un quarto rapinatore usciva all’improvviso da un furgone parcheggiato davanti alla volante aprendo il fuoco sui Carabinieri.
Nasceva quindi un conflitto a fuoco in cui restava ucciso il malvivente che aveva attaccato gli agenti, un altro si arrendeva e gli altri due si davano alla fuga.
Nel corso dell’inseguimento la colluttazione con gli agenti continuava finché i due non tentavano di impossessarsi, armi in pugno, di un furgone che transitava in quell’area.
Il tentativo falliva a causa del rifiuto del conducente e delle condizioni del traffico, e allora i rapinatori continuavano la loro fuga a piedi.
Gli agenti del comando dei Carabinieri tentavano di bloccare i rapinatori esplodendo diversi colpi d’arma da fuoco.
Tuttavia, a causa di un’accidentale deviazione, uno di questi colpiva il conducente del veicolo che i ladri avevano tentato di rubare, il quale morirà in seguito per le ferite riportate.
Da questa vicenda nasceva un processo che vedeva assolto in primo grado e in appello l’agente che aveva sparato, considerando decisiva proprio la presenza della scriminante dell’art. 53 c.p.
La Suprema Corte, si pronunciava sulla corretta applicazione delle norme in tema di uso legittimo delle armi da parte del Giudice di Merito, chiarendo i contorni dell’istituto e rimarcando un orientamento consolidato dalla stessa giurisprudenza di Cassazione.
Nel dettaglio, la Cassazione rilevava una situazione di estrema violenza anche al momento della fuga dei rapitori, e dunque riteneva che i Giudici di merito e di appello avessero correttamente misurato la necessità di un intervento armato da parte dei carabinieri.
Anche per quanto riguarda la proporzione, appariva ragionevole il bilanciamento considerato dai Giudici tra l’azione degli agenti ed il comportamento dei fuggiaschi, che peraltro stavano mettendo in pericolo la vita dei tre ostaggi.
Inoltre, nell’ottica dei Giudici di cassazione, la concitazione del momento della sparatoria e del tentativo di fuga aveva reso impossibile operare distinzioni sulla circostanza che l’evento più grave (l’uso delle armi) venisse a colpire gli stessi autori dell’illecito o anche terzi coinvolti nel teatro del sinistro.
Donde, con queste motivazioni la Corte di Cassazione respingeva i ricorsi presentati contro la decisione della Corte d’Appello di Cagliari, confermando la non punibilità del Carabiniere che aveva agito, pertanto, in presenza della causa di giustificazione.
I-c) Come chiaramente rappresentato dalle pronunce testé richiamate, dagli interventi che mi hanno preceduto, nonché dai principi sovranazionali e dalla struttura dell’art. 53 c.p., emerge che fondamentale requisito richiesto per l’applicabilità della scriminante dell’uso legittimo delle armi è quello della necessità, che, al contrario del criterio della proporzione, è espressamente previsto dalla norma e deve essere interpretato secondo il binomio necessità/inevitabilità, che impone al pubblico ufficiale di porre in essere la condotta meno dannosa per il raggiungimento dello scopo perseguito.
Tale concezione si inquadra appieno nella prospettiva dell’uso delle armi, o della coazione fisica, come extrema ratio, all’interno della quale sussiste una graduazione degli interventi e delle dinamiche da porre in essere e, laddove si ponga in essere un intervento con le armi, tale intervento dovrà essere l’unica ipotesi praticabile in base alle concrete circostanze.
La giurisprudenza di legittimità ha interpretato il concetto di necessità ritenendo che il ricorso all’uso delle armi debba costituire l’extrema ratio nella scelta dei mezzi necessari per l’adempimento del dovere, essendo esso legittimo solo quando non siano praticabili altre modalità d’intervento, né siano superati i limiti di gradualità dettati dalle esigenze del caso concreto (Cass. Pen. Sez. V, n. 41038 del 16 giugno 2014).
È questa la ratio sottesa alle pronunce del Supremo Collegio che, in più di una occasione, ha “sdoganato” il cd. “colpo in aria”, ritenendola una pratica legittima.
In questi termini si è espressa, ad esempio, la Suprema Corte affermando che “È legittimo l’uso delle armi ex art. 53 c.p. da parte di un agente di polizia che, per sedare una colluttazione e respingere la violenza attuata nei suoi confronti da alcuni corrissanti, esplode dei colpi di pistola in aria a scopo intimidatorio, trovando il suo comportamento ragione nella necessità di tutelare l’autorità e l’incolumità di persone che esercitano una pubblica funzione” (Cass. Pen. Sez. Sez. VI, 08/01/2004, n. 7337).
Assai “curiosa”, al riguardo, è la circostanza che mentre l’Autorità Giudiziaria ritiene, di fatto, lecita simile pratica del “colpo in aria”, l’Autorità Amministrativa sembra tendere a disincentivare detta prassi.
È in tale direzione che va una nota del Ministero dell’Interno, risalente al giugno 2008, con cui l’allora capo della Polizia di Stato invitava i Dirigenti ad accertare eventuali responsabilità amministrative nei confronti dell’Operatore che avesse attuato tale pratica. In altri termini, i Dirigenti venivano invitati ad avviare un procedimento disciplinare nei confronti dei Poliziotti che avevano sparato il colpo in aria a scopo intimidatorio.
Tornando alle questioni di puro diritto.
Il requisito della necessità deve, inoltre, essere inteso quale attualità della condizione legittimante l’uso dell’arma: in altre parole, la violenza o la resistenza devono essere in svolgimento al momento dell’uso delle armi, che si pone quale contrasto alle stesse.
Da ultimo, la necessità nell’uso dell’arma deve essere accompagnata dal requisito della proporzione.
Il requisito della “proporzione” non è né sinonimo della “necessità”, né è compreso in quest’ultima, posto che assolutamente necessario è ciò che non si può realizzare altrimenti, mentre proporzionato è ciò che soddisfa il giusto bilanciamento sia tra i mezzi utilizzati e la condotta del privato, sia tra i mezzi a disposizione dell’autorità e il bene che con essi verrebbe aggredito.
Ad esempio, se il pubblico ufficiale non ha altro modo se non l’uso di un’arma letale per arrestare un soggetto pericoloso, la proporzione sussiste solo nel caso in cui il bene da proteggere sia la vita propria o di terzi. Altrimenti, deve astenersi dall’uso dell’arma.
In altre parole, è sempre il criterio della proporzione che deve guidare il pubblico ufficiale al quale si chiede, senza che debba rinunziare all’adempimento del dovere di ufficio, di conseguire lo scopo con il minor sacrificio del contrapposto interesse.
La mente corre ad un caso giurisprudenziale che rende bene il concetto appena espresso:
- pen., Sez. V, Sentenza, 14/06/2013, n. 46787.
Non ricorre la scriminante prevista dall’art. 53 del cod. pen. nel caso in cui il pubblico ufficiale, al fine di eseguire un ordine di sgombero di una piazza, ricorra all’uso delle armi immediatamente dopo aver intimato lo sgombero, senza lasciare agli intimati il tempo di allontanarsi e senza aver constatato la loro inottemperanza. (Fattispecie relativa al getto di una bomboletta di gas urticante in direzione del viso di destinatari del provvedimento di sgombero).
Nel caso di specie, si legge nella decisione che la Corte non ha riconosciuto l’operatività della scriminante in quanto si presentavano possibilità alternative all’uso della bomboletta, posto che sarebbe bastato attivare l’intervento degli agenti sottoposti, i quali avrebbero potuto ottenere il risultato voluto “con modi ugualmente decisi”, ma senza ricorrere all’uso delle armi.
- LA SCRIMINANTE PUTATIVA
In assenza di tali requisiti, come Vi è stato già detto, la scriminante non troverà applicazione e il comportamento del pubblico ufficiale potrà, al più, essere inquadrato nella disciplina della causa di giustificazione putativa (art. 59, co. IV, c.p.).
Si verte nella cd. “scriminante putativa” quando il soggetto agente ha erroneamente ritenuto sussistere tutti i presupposti necessari.
La scriminante putativa postula i medesimi presupposti di quella reale con la sola differenza che, nella prima, la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti.
Tale errore, che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta la responsabilità di cui all’art. 59, co. IV, c.p., quando sia determinato da colpa, deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi nell’assoluta necessità di utilizzare l’arma o altro mezzo di coazione.
Conseguentemente, la scriminante putativa non può essere valutata alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo ed essere desunta dal mero stato d’animo dell’agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo, invece, essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l’errore.
Essa, pertanto, può configurarsi se e in quanto l’erronea opinione della necessità di utilizzare l’arma sia fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell’animo dell’agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione corrispondente a quella che gli consenta l’uso dell’arma o del mezzo di coazione, persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l’azione venga a estrinsecarsi (Sez. 1, n. 27542 del 27/05/2010, Galluccio, in motivazione).
Per escludere il dolo, quale conseguenza dell’erronea supposizione della esimente, occorre dunque che l’errore valutativo cada sui presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione (Sez. 4, n. 12137 del 05/06/1991, Rizzo, Rv. 188684 – 01), ossia l’esistenza di un ordine legittimo e i suoi limiti, la assoluta necessità di respingere la violenza o vincere la resistenza, la proporzione tra la lesione dell’incolumità personale e la protezione dell’ordine pubblico. Possono, in particolare, verificarsi un errore di percezione iniziale o un errore di valutazione successivo sull’uso dei mezzi di reazione (errore di giudizio ed errore modale) (Sez.4, n.12420 del 3/02/2010, Panzi, in motivazione).
In conclusione.
Quando si parla di uso legittimo delle armi putativo, si fa riferimento all’ipotesi in cui il soggetto ha agito nell’erronea convinzione di trovarsi in una situazione che, laddove fosse stata realmente esistente, avrebbe reso necessario l’uso dell’arma (si dovrà quindi trattare di una erronea percezione della realtà): l’errore, in tale ipotesi, non inficia l’esimente.
Non si potrà invece invocare la disposizione di cui all’art. 59, co. IV, c.p., nell’ipotesi in cui l’errore, anziché vertere su elementi della realtà (che sarà quindi correttamente percepita), ricada sull’efficacia della norma di cui all’art. 53 c.p., poiché in tal caso si risolverebbe in un errore di diritto per ignoranza della norma penale, che come tale non scusa.
Volendo esemplificare secondo i dettami Giurisprudenziali, “l’esimente putativa dell’uso legittimo delle armi può ravvisarsi quando l’agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che ove fosse stata realmente esistente egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi; tale esimente non può ravvisarsi, invece, quando l’errore sia caduto sulla efficacia della norma perché in tal caso l’errore si risolve nella ignoranza della legge penale che non scusa (nella specie: un poliziotto aveva sparato colpi d’arma da fuoco su una persona in fuga ritenendo che la norma lo autorizzasse a fare uso dell’arma anche in una tale situazione di fatto)” (Cass. Pen. Sez. Sez. I, 30/09/1982).
Ancora.
Una recente pronuncia della Suprema Corte (n. 3727/2024[1]) ha affermato che “In tema di cause di giustificazione, la scriminante dell’uso legittimo delle armi in forma putativa non può basarsi su un mero criterio soggettivo, ma richiede la sussistenza di dati fattuali concreti che, sebbene malamente rappresentati o compresi, siano suscettibili di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi nell’assoluta necessità di utilizzare l’arma o altro mezzo di coazione. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la configurabilità della scriminante in forma putativa in relazione alle lesioni cagionate, con colpi di manganello e calci, da alcuni agenti di polizia a un giornalista in occasione di scontri originati da una manifestazione di piazza, in assenza di elementi che potessero indurre a ritenere pericolosa la vittima, inerte e poi caduta al suolo, posizionatasi vicino a un gruppo di manifestanti per osservare la scena dell’arresto di uno di essi).” (Cass. Pen. Sez. IV, Sentenza, 11/01/2024, n. 3727).
III. ECCESSO COLPOSO
III-a) Quando si parla di eccesso colposo, a norma dell’art. 55 c.p., si fa riferimento all’ipotesi in cui si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge, o dall’ordine dell’autorità, o imposti dalla necessità per l’operatività delle cause di giustificazione.
In questo caso, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo, troveranno applicazione le disposizioni relative ai delitti colposi.
Deve essere sottolineato che per la configurabilità dell’ipotesi di eccesso colposo, di cui all’art. 55 c.p., è necessario che siano presenti tutti i presupposti della causa di giustificazione.
La differenza con l’ipotesi della scriminante putativa, o erronea supposizione di agire in presenza di una scriminante, è infatti da ricercarsi nella considerazione che, mentre nell’ipotesi della putatività la causa di giustificazione esiste solo nella mente del soggetto agente (e non nella realtà), nell’eccesso colposo, invece, vi è l’esistenza in concreto della scriminante, ma se ne travalicano i limiti.
Una risalente ma tuttora attuale pronuncia ha affermato che “L’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi presuppone l’esistenza di tutti gli elementi e di tutte le condizioni della scriminante reale (che esclude l’antigiuridicità) o putativa (che esclude il dolo) e consiste nell’oltrepassare per errore i limiti imposti dalla necessità, concretandosi nell’eccesso nell’uso dei mezzi” (Cass. Pen. Sez. I, 30/09/1982).
Al fine di chiarire cosa si intende per “eccedere colposamente i limiti”, vale la pena richiamare un caso giurisprudenziale assai peculiare:
- pen., Sez. IV, Sentenza, 23/10/2008, n. 45015
Ai fini del riconoscimento della scriminante dell’uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica è irrilevante, in presenza degli altri requisiti previsti dall’art. 53 cod. pen., che l’arma venga utilizzata dall’agente in modo improprio piuttosto che secondo le sue naturali modalità d’impiego. (Fattispecie in cui un carabiniere aveva utilizzato la pistola d’ordinanza “a mò di clava” per infrangere il vetro di una autovettura determinando l’accidentale esplosione di un colpo che attingeva mortalmente il soggetto che si era asserragliato nel veicolo).
Nella specie l’imputato, pur avendo tenuto un comportamento ineccepibile sino al momento della rottura del vetro del finestrino (e ciò a conferma della sua capacità di far fronte a momenti critici) nel momento topico dell’azione non aveva considerato che impugnava la pistola stessa con il dito ancora collocato sul grilletto e che tal modo di impugnare l’arma avrebbe potuto provocare, come in concreto avvenuto, la partenza di un colpo. Dunque, la Suprema Corte annullava la decisione demandando al Giudice di Merito il compito di verificare, in concreto, che si vertesse in una ipotesi di eccesso colposo.
Per chiarire ancora meglio il concetto giuridico sotteso all’art. 55 c.p., altresì, vale la pena richiamare la decisione della Suprema Corte (Sez. IV, 07.06.2000, n. 9961), in quanto chiarisce un aspetto molto importante relativo alla configurabilità di ipotesi di eccesso colposo.
Insegna infatti la Corte Suprema che:
“…. una volta pervenuti a giudizio di legittimità dell’uso delle armi e verificato il rispetto dell’essenziale prerequisito della proporzione … il rischio del verificarsi di un evento non voluto, più grave, rispetto a quello perseguito dalla gente, non può essere posto a carico del pubblico ufficiale.
Invero, il colpevole errore valutativo, implicante responsabilità penale ex articolo 55 c.p., può riguardare (esclusa l’ipotesi di inescusabile ignoranza della legge penale), il limite imposto dalla necessità (di respingere la violenza o vincere la resistenza), vale a dire, il se in quella data situazione fosse, o no, legittimo ricorrere all’uso delle armi. Ma se il giudizio è di legittimità dell’uso, l’errore sconta una componente di rischio proprio all’uso delle armi, a nulla rilevando l’eventuale prevedibilità dell’evento diverso, posto che l’uso di un’arma da fuoco (unica arma in dotazione del pubblico ufficiale, essendo pacifico che egli è autorizzato a fare uso solo delle armi fornitegli dal corpo di appartenenza) sconta sempre una componente di rischio: la prevedibilità è in sé e può essere scongiurata solo rinunziando all’uso dell’arma. In caso diverso, si avrebbe l’assurdo che l’agente sarebbe legittimato ad usare l’arma ma a proprio rischio, anche quando abbia riposto la massima cura e dimostrato sicura perizia”.
III-b) Giunti a questo punto vale la pena riportare un caso di cronaca molto sentito a Roma, che all’epoca ebbe una risonanza Nazionale: il caso Alberta Battistelli.
Una storia dimenticata, una vicenda che ha anticipato i casi Aldovrandi e Cucchi, la morte della ragazza Alberta Battistelli avvenuta a Roma il 10 luglio del 1980.
Siamo in pieno centro a Roma. Una ragazza alla guida di una Fiat 500 non si ferma a un controllo dei vigili urbani presso Piazza di Santa Maria in Trastevere, da poco divenuta isola pedonale.
La ragazza alla guida della Fiat 500, poi risultata rubata, si era immessa nella piazza in questione nonostante il cartello che segnalava il divieto di accesso e nonostante l’alt di due Operatori di Polizia Locale moto-muniti, posti a presidiare detto accesso.
Uno dei vigili (D.L.) intimava l’alt anche a mezzo di fischietto.
Niente da fare, la piccola Fiat non ottemperava all’ordine e proseguiva lesta la sua marcia nella piazza in direzione del lato opposto ove vi erano altri Vigili.
L’auto veniva rincorsa in moto dal D.L. ed a piedi dall’altro Vigile (R.), compagno di moto pattuglia.
A sua volta uno dei vigili situato dall’altro lato della piazza (B.) intimava l’alt ponendosi davanti l’auto.
Di tutta risposta la Battistelli lo urtava e lo faceva cadere a terra, continuando imperterrita nella marcia.
Nel frattempo il D.L. (quello in moto) la aveva raggiunta e si era posizionato davanti la Fiat 500 che, non paga, urtava anche detto motociclo facendo cadere il pilota a terra. Costui si rialzava ma veniva di nuovo urtato dalla Fiat 500 e rovinava di nuovo a terra.
Nel frattempo giungevano a piedi i Vigili B. e R. e anche quest’ultimo veniva investito, cadendo a terra.
A quel punto, si legge nelle decisioni, i due vigili riferivano di aver sentito colpi provenienti dall’auto e, a fronte di ciò, decidevano di “rispondere al fuoco”.
L’auto arrestava la marcia e, aperta la portiera, la donna si accasciava su un fianco.
Siamo in piena epoca di terrorismo, dove Magistrati e appartenenti alle forze dell’Ordine vengono assassinati con una certa frequenza.
Siamo in un’epoca storica connotata da un certo allarmismo nei confronti di chiunque attui comportamenti che denotano sospetto.
Nel caso della Battistelli, i Vigili esplodevano numerosi colpi all’indirizzo dell’auto: alla fine si conteranno 21 colpi sparati in direzione del veicolo condotto dalla ragazza, la quale finirà la sua vita a bordo di un’ambulanza poiché 2 proiettili la raggiungevano fatalmente.
Nella perizia balistica agli atti del processo si legge che l’auto condotta da Alberta Battistelli era stata investita da un vero uragano di pallottole e che, uno di quei colpi era stato addirittura esploso a 30/40 centimetri dal corpo dell’infelice Alberta.
Lo sdegno per l’accaduto arriva in Parlamento dove sono numerose le interrogazioni parlamentari (ricordiamo che era in vigore la Legge Reale del 1975, sulla pubblica sicurezza, introdotta proprio sulla scia degli omicidi di matrice terroristica di quegli anni).
Dalle pagine del quotidiano socialista l’Avanti leggiamo:
«Non bastavano i carabinieri e gli agenti di polizia a sparare contro auto che non si fermano all’alt per un controllo o ad un posto di blocco, e, come purtroppo spesso è accaduto, ed uccidere. Adesso ci si mettono anche i vigili urbani a sparare contro auto indisciplinate e ad uccidere. Addirittura contro automobili che penetrano in un’isola pedonale, come è accaduto ieri notte a Roma in Trastevere. Adesso qualcuno dirà che l’auto era rubata e che la donna che era al volante e che è stata uccisa, poco prima aveva tentato uno scippo.
Ma questo i vigili urbani, quando hanno sparato, non lo sapevano. E in ogni caso non sarebbe stato un motivo sufficiente per sparare «ad uomo» come hanno fatto».
Le indagini condotte dal procuratore Giorgio Santacroce si trovano di fronte ad un muro di gomma, sono molte le testimonianze contraddittorie e le versioni fornite dai vigili urbani, che inizialmente ammettono di aver sparato tre colpi di arma da fuoco che in realtà alla fine delle indagini risulteranno 21 e di questi due sono quelli mortali.
I tre vigili urbani, dopo un tortuoso iter giudiziario, verranno condannati in primo grado dalla Corte di Assise di Roma (17.07.1987) per omicidio colposo in relazione agli artt. 53 e 55 c.p., così riqualificando il fatto originariamente inquadrato in omicidio preterintenzionale.
In secondo grado la Corte di Assise di Appello di Roma confermerà (09.03.1989) la qualificazione giuridica del fatto e la pena di 4 anni di reclusione, e dichiarerà estinto il reato per prescrizione.
La Cassazione (06.10.1989) confermerà tale inquadramento giuridico.
A seguito dell’accaduto il Parlamento decise di togliere le pistole ai vigili urbani neoassunti come ricorda il 30 gennaio 2009 un sindacato di categoria: “Bisogna riandare al 1980 per rievocare l’uccisione di Alberta Battistelli ad opera dei vigili urbani. Da allora in poi si decise che i vigili neoassunti non dovessero più essere armati, ma le armi rimasero per quelli che erano già in servizio” Unione Sindacale di Base: Roma. ARMI AI VIGILI? NO, GRAZIE! (usb.it)
Ebbene.
Al di là del clamore mediatico e delle diverse opinioni politiche, deve essere rilevato che, alla luce della ricostruzione dei fatti, i Giudici di merito hanno correttamente ritenuto che, nel caso in questione ricorrevano oggettivamente le condizioni poste dall’art. 53 c.p. per l’uso legittimo delle armi: la necessità di vincere la resistenza attiva della donna e la finalità dei pubblici ufficiali di adempiere il corrispondente dovere di ufficio e procedere al suo arresto.
È infatti pacifico nella giurisprudenza di legittimità che, mentre l’uso delle armi contro chi oppone al p.u. una resistenza meramente passiva ovvero si sottrae con la fuga ad una intimazione all’arresto, non è legittimo, salve le eccezioni previste dalla legge … (art. 53 , terzo comma c.p.), esso è invece legittimo , ex art. 53 c.p., quando la resistenza è attiva e quindi anche quando la fuga viene compiuta – come nel caso in questione – mediante atti di aggressione fisica contro il p.u. che cerca di impedirla.
Nel caso in esame, giustamente la Corte di Assise ha ritenuto che frutto di colposo superamento del limite, inizialmente osservato, deve ritenersi l’azione compiuta dall’autore materiale degli ultimi due colpi, esplosi a distanza ravvicinata contro parti vitali (l’emitorace sinistro e la corrispondente linea vertebrale) del corpo della Battistelli, quando costei, compiuto ancora una volta l’ennesimo fatto di violenza (il terzo investimento), aveva ripreso a fuggire, di nuovo inseguita dai vigili; doverosamente inseguita in quanto, ben più che per l’iniziale infrazione di non essersi fermata alle intimazioni, essa doveva essere fermata ed anche arrestata per i reati successivamente commessi.
Illuminante ed estremamente chiarificatore è quanto si legge nella sentenza della Corte di Assise (pag. 31 e ss.): “nella drammatica vicenda appare evidente che i vigili…hanno agito nella convinzione di dover bloccare un comportamento che aveva assunto i caratteri della violenza e della resistenza all’Autorità e che, per di più, dava adito a legittimi gravi sospetti. Ed in tale contesto, hanno ritenuto di poter fare uso delle armi per porre termine alla consumazione dei reati che la Battistelli stava ponendo in essere, per bloccarla, identificarla ed arrestarla. L’uso delle armi non solo è legittimo, ma obbligatorio per il pubblico ufficiale, quando ricorrano gli estremi della necessità e sempre che venga osservato un criterio di proporzione fra i mezzi usati e quelli che si avevano a disposizione. Data la gravità della situazione provocata proprio dalla anomala ed assurda condotta della Battistelli, la convinzione di dovere porre mano alle armi era comunque giustificata sul piano putativo ex art. 59 cod. pen. Invero, l’errore si verifica allorché le condizioni o situazioni di fatto che danno luogo anche a questa causa di giustificazione non esistono, ma per equivoco, come nella fattispecie, sono ritenute esistenti. E si ha eccesso colposo ex art. 55 cod. pen. allorché esistono sia pure solo sul piano putativo, i presupposti della causa di giustificazione, ma vengono oltrepassati i limiti imposti dall’art. 53. Non v’è dubbio, ad avviso della Corte, che tutti e tre gli imputati abbiano ecceduto, per colpa consistente nella imprudenza ed imperizia nell’uso delle armi, i limiti entro i quali dovevano mantenersi: sarebbero stati sufficienti alcuni colpi alle ruote per bloccare definitivamente la marcia dell’autovettura e procedere all’arresto della persona che ne era alla guida”.
Avv. Stefano Pasquetti
[1] Il fatto oggetto di giudizio si è verificato il 23 maggio 2019 in Genova. La formazione politica di destra Casa Pound aveva organizzato un punto di propaganda con gazebo in Piazza Marsala; tale evento aveva suscitato la reazione degli antagonisti, i quali avevano preannunciato una contromanifestazione. Il Questore aveva emesso ordinanza di servizio disponendo i servizi di ordine pubblico e una serie di dispositivi per gestire la contromanifestazione, segnatamente il lancio di lacrimogeni, cariche di alleggerimento, equipaggiamento antisommossa dei poliziotti incaricati del servizio. Nel pomeriggio, gli aderenti alla contromanifestazione avevano raggiunto il migliaio di persone; alcuni manifestanti erano particolarmente violenti e travisati. Il personale con equipaggiamento antisommossa, posizionato in piazza Corvetto all’innesto con via SS Giacomo e Filippo, era impegnato a contrastare un gruppo di manifestanti intenzionati a impedire l’arresto di uno di loro resosi responsabile di resistenza a pubblico ufficiale, F.F. Le squadre del Reparto Mobile di Genova, in quel momento, non potendo utilizzare i lacrimogeni per l’eccessiva vicinanza rispetto allo schieramento, stavano eseguendo l’ordine di attivare una carica di alleggerimento, avanzando verso i manifestanti per spingerli indietro e farli desistere; utilizzavano gli strumenti di difesa personale in dotazione, scudi e manganelli. Altri manifestanti, posizionati in alto rispetto alla piazza, lanciavano petardi, pietre e bottiglie; i poliziotti avevano creato una cerniera di chiusura tra via SS Giacomo e Filippo e il centro della piazza e, durante la carica di alleggerimento, il giornalista A.A., che si trovava nelle immediate vicinanze, era stato ripetutamente colpito dai poliziotti, fermati dall’intervento del Vice Questore Bove, riportando lesioni refertate al pronto soccorso con diagnosi alla dimissione di “trauma cranico non commotivo, trauma toracico con frattura scomposta VI costa dx, frattura pluriframmentaria II e III dito mano sx, policontusioni, ematomi regione dorsale e laterale sx torace, parte posteriore coscia sinistra, regione lombare centrale e laterale dx, collo e parte prossimale arto sup. sx, contusioni agli arti inferiori”.